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I sette cavalieri di Vittorio Veneto

"Un'intervista ai cavalieri di Vittorio Veneto? Oddio ...".

Quando mi è stato proposto questo lavoro dalla redazione del Notiziario non posso negare di essermi lasciato sfuggire un sospiro, assieme a un'espressione di imbarazzata perplessità.

Si trattava di infrangere il dignitoso riserbo delle famiglie, di entrare nelle case a interrogare, a scavare nei ricordi della lontana giovinezza di chi, con mano tremante e voce incerta, faticava già a rimanere a contatto con l'oggi, e forse da tempo non usciva dalle quattro mura di una stanza, ormai disabituato al comunicare: costante e impervio, per quanto non volontario esercizio di preparazione a ciò che seguirà alla vita.

Sì. I cavalieri di Vittorio Veneto sono i combattenti della Grande Guerra del '14-18. Poiché bisognava avere almeno diciott'anni per essere richiamati, l’ultima classe, richiamata negli ultimi mesi di guerra, fu il 1900.

Dunque mi sarei trovato di fronte ad anziani con un'età che porta come prima cifra un vertiginoso numero nove. Mi veniva in mente l’immagine proustiana del Tempo: l’uomo cammina su trampoli via via più alti che rendono il suo passo sempre più malfermo...

Nello stesso tempo mi incuriosiva l’enormità del ponte gettato attraverso il tempo, oltre settant'anni, che avrei percorso a piedi, senza la mediazione di quelle pagine dei libri di storia che a scuola i ragazzi studiano in astratto come cosa che non ha più nessun rapporto con l’oggi. Sette se ne contano ancora a Crevalcore che hanno combattuto la Grande Guerra.

Il primo che sono andato a trovare è stato Alfonso Piccinini.

Nato a Crevalcore il 18 novembre 1899 da una famiglia di braccianti con sei figli (cinque maschi e una femmina), nel 1913 si trasferì a Ravarino. Venne richiamato nell'ottobre del 1917 proprio durante la ritirata di Caporetto. Dopo aver fatto un breve periodo di addestramento ad Alessandria, intruppato nel 38° fanteria, fu inviato sull'altipiano di Asiago.

Era già scesa la neve e il fronte si era ormai stabilizzato sul Piave. "A sô stee lé tott l’inveran ma as treva sol 'na quelch sciuptèda. E po', a premavera, is dén al cambi, a so gnu zo in avrél o in maz". "Avê, fat du més in riposo e po', con il 67° fanteria, is imbercan a Taranto e is manden in Albania, alla Baiussa (sul fiume Voiussa). Quando abbiamo passato il fiume loro erano già in ritirata; i iran bela finî. Avê festegèe la vittoria a Valona".

– Quando è ritornato dall'Albania?

"Siamo ritornati nel luglio del '20 parchè a se armès come truppa d'occupazione a presidiér".

Alfonso Piccinini
      Alfonso Piccinini

– E i vostri rapporti con gli albanesi?

"An so descrivar cum a l’ira la populazion; a gh'ira di paes ch'an gh'ira gninta.

A s'ira sempar in muntagna. A stevan lé in pustazion acsé. Senza libera uscita parchè an's saveva in du andèr. Solo a Valona l’esérzit l’aviva fat un cinema e a gh'ira un spazi".

Tra la popolazione – racconta Piccinini – c'era chi parteggiava per la Serbia e chi per l’Italia; spesso i partigiani albanesi tagliavano i fili del telefono e bisognava portare gli ordini a mano. Si andava anche in sei o sette per coprirsi a vicenda. Quando accoppavano dei nostri prendevano il vestiario e il fucile "... mè a géva che an turneva pió a ca' ".

 – Ma finalmente nel luglio del '20 è ritornato a casa...

"Quant a son gnu a ca' in m'an po' ménga congedee: dal loi dal '20 al merz dal '21 a l’o fat a Como al 67°. Nella smobilitazione nuetar a sen stèe i ultum".

In totale Alfonso Piccinini ha passato quarantasei mesi sotto le armi, ma non è che i problemi siano finiti con il ritorno a casa. "A gh'ira i sciòpar" e finalmente "dal '22 i tachén la bunefica": a Novi di Carpi, anni di lavoro come scarriolante, dormendo la notte nelle stalle e ritornando a casa il sabato.

 Guglielmo Picchioni     

Guglielmo Picchioni, è indisposto e si premura di mandarmi il figlio Luciano con qualche foglio di appunti.

Guglielmo è nato a Lizzano in Belvedere nel giugno 1895 da un famiglia di pastori; era il più vecchio di nove fratelli. Intorno all'inizio del secolo la famiglia si trasferì a Crevalcore, alla Guisa e il giovane trovò lavoro come docciaio a S. Felice sul Panaro. Nel 1911 fu accolto come suonatore nella banda di S. Felice.

Quando arrivò il tempo del servizio militare era il dicembre 1914. Il conflitto si era ormai generalizzato e la situazione italiana era quanto mai incerta: si affrontavano neutralisti e interventisti mentre il ministro Sonnino aveva appena visto fallire le sue trattative con gli austro-tedeschi per ottenere vantaggi territoriali.

Guglielmo fu inviato a Verona e assegnato a un corpo di radiotelegrafisti. Terminato il periodo di addestramento, viene inviato al forte di Lugugnana, nei pressi del Tagliamento. Infermatosi, ritorna a casa in convalescenza per essere richiamato in seguito con la classe 1896. Fu messo in forza presso il 9° artiglieria, prima a Pavia, poi a Novara; il reparto venne quindi inviato a Thiene (Vi).


Guglielmo Picchioni (al centro)    
 

Nel frattempo anche l’Italia era entrata in guerra. Guglielmo era addetto al trasporto delle munizioni al fronte, che veniva effettuato con i muli; durante un bombardamento, per proteggersi, si accovacciò sotto l’animale che venne colpito al suo posto permettendogli di salvarsi.

Il nostro soldato fu poi trasferito a Valstagna (oltre Bassano del Grappa), anche qui addetto al trasporto munizioni a Gallio, sul monte Pao, a Cima 11 e a Cima 12. Una volta, in Val Frenzela, fu sorpreso da un violento temporale; il mulo, carico, finì nel torrente in piena. Guglielmo si tolse l'uniforme e si gettò anch'egli nel torrente armato di coltello: riuscì a tagliare le cinghie che legavano il carico all'animale e lo salvò, mosso forse dal desiderio di saldare un vecchio debito e non senza i rimproveri del capitano per aver messo a repentaglio la propria vita. Fra i suoi commilitoni ce n'erano altri di Crevalcore, fra i quali Roveri (morto in guerra) e Alberto Guidi (che intervisteremo).

Venne quindi la ritirata di Caporetto. Il reparto di Guglielmo fu trasferito prima a Palazzolo sull'Oglio, quindi a Menaggio, sul lago di Como. Il congedo sarebbe giunto solo molto più tardi, nell'ottobre del 1919, a Verona: ebbe 250 lire di liquidazione.

– Trovò delle difficoltà al ritorno per reinserirsi?

"Non troppe; era uomo ricco di iniziative e iniziò presto a riparare biciclette. Si avviò bene, tanto che in una decina d'anni arrivò a costruire la casa in cui abitiamo ancora".

  
  

Il commilitone di Picchioni, Alberto Guidi, classe 1896, viene da una famiglia di carrettieri, famiglia numerosa, visto che Alberto ha nove fratelli. Richiamato nel 1914, si trovava sotto le armi allo scoppio della guerra; combatté nel 17° artiglieria sul Monte Pertica, nel Massiccio del Grappa.

– In quali altri luoghi ha combattuto?

"Sono stato anche sul Carso, e qui sono stato ferito".

– Quando?

Alberto Guidi manifesta qualche incertezza; la memoria non è più molto agile...

– È stato prima o dopo Caporetto?

"Dopo, mi sembra. Ero stato trasferito in fanteria e ho combattuto in trincea. Sono stato ferito di striscio al cuoio capelluto, ma non me l’hanno riconosciuta... Ho passato una ventina di giorni in ospedale".


 Alberto Guidi
       Alberto Guidi

Fatico a dipanare il filo della storia e azzardo la domanda:

– Durante la ritirata, lei, dove si trovava?

"... an m'l’arcord brisa... l’é bèla pasèe pió d'ssanta an...".

Ne sono già passati più di settanta, dovrei correggere, ma non lo faccio. Insisto ancora:

– Ha un episodio da raccontarmi?

La figlia, presente alla conversazione, cerca di superare le incertezze mettendo a fuoco un racconto forse ripetuto decine di volte, negli anni. Finalmente...

"Ah, sé, quant a de' fugh al mól. A gh'aviva un mól bianch e i 'um mitraglievan parchè al s'avdiva trop. A ciapé un sulfanen e ag dé fugh. Al dvinté négar cume ché (indica la propria maglia).

Non riesco bene a figurarmi l'episodio piuttosto grottesco che Guidi mi accenna fra i singulti di un riso che l’emozione rende intenso.

– Lei è stato richiamato anche nell'ultima guerra?

"Mi mandarono l’avviso, però i um lasén a ca', ma s'i um mandevan anch an gh'andeva brisa parche' aviva pôra. Ag déva 'na sciupteda mé".

– La prima guerra è stata molto brutta. Il disagio della vita in trincea, gli assalti alla baionetta... Sono cose che ho visto nei film.

"Eh, a gh'ira d'andèr all'assalto...".

– Lo ha fatto anche lei, saltar fuori dalla trincea con la baionetta innestata... dev'essere una delle esperienze peggiori che è possibile fare.

"Mo vacca...".

Le mani ossute si congiungono accompagnando un'espressione irripetibile del viso mentre affiorano altre lacrime, di segno diverso da quelle che avevano accompagnato il riso di poche battute prima. Ho toccato un tasto terribile. Il ricordo affiora e scompare e non è chiaro se sia rimosso o semplicemente stinto dal tempo ("Quant an é pasee... pio' d'ssanta, é véra?").

   

Stanislao Manfredi, più conosciuto come Nésal è il più anziano dei cavalieri di Vittorio Veneto che vivono ancora a Crevalcore: il 2 aprile compirà 98 anni.

I Manfredi erano una di quelle famiglie patriarcali numerosissime (18 componenti) quali s'incontravano di frequente nelle nostre terre all'inizio del secolo.

Mezzadri dei Tomeazzi nel podere del Macerolungo, racconta la figlia, accadeva che quando i padroni andavano in visita nascondessero qualche bambino nel sottoscala per non trovarsi a dover render conto di quel numero spropositato di bocche da sfamare.

Nésal allo scoppio della guerra si trovava sotto le armi da almeno un anno; era in servizio a La Spezia (nella sussistenza?) come panettiere.

– Poi, che accadde?

Nésal ha un dolcissimo sorriso; fuori è una bella giornata di sole, qualcuno gli sta facendo delle domande... debbono riguardare i suoi ricordi; ma quali ricordi? Quelli laggiù, laggiù... Sono talmente distanti! La figlia Lea continua a raccontarmi che la guerra, Nésal, l’ha fatta alla fine come bersagliere. "È vero papà?"

Stanislao Manfredi detto Nésal 
      Stanislao Manfredi, detto Nésal

"Eh? Bersalìr?". I suoi occhi si illuminano per un attimo, fa un cenno con il capo: sì, certo che c'è un ricordo che riguarda i bersaglieri... anzi, proprio lui era bersagliere, ma quando? dev'essere stato tanto tempo prima, ma tanto!

La signora Lea accenna a un episodio che ha sentito raccontare: dopo aver bevuto per farsi coraggio, Nésal si fece trascinare verso il fronte aggrappato alla coda di un mulo.

 – Quando, dove?

Sono ormai domande destinate a restare senza risposta, e quell'unica immagine la riporterò nella mia intervista come unico compendio di sette anni di vita militare di un uomo tranquillo, costretto a un "dovere" che non approvava: lui era socialista, e per i socialisti le guerre non si devono fare; forse la rivoluzione si dovrebbe fare, per riportare l’equità, la giustizia, la fratellanza, ed anche il pane.

Al ritorno a casa si prese le botte dai fascisti.

Adolfo Cané è  nato a S. Agata Bolognese il 31 marzo 1898. I suoi genitori, che avevano 8 figli, 5 femmine e 3 maschi, si trasferirono a Crevalcore nel 1900 per divenire affittuari del fondo del professor Sibirani.

– Quando è andato sotto le armi?

Il tremito del morbo di Parkinson rende un po' difficoltoso il parlare.

"In dal sègg’", esordisce Cané; prima tre mesi di addestramento a Milano e poi l’Isonzo e Caporetto in un reparto di bombardieri.

– E che cosa accadde durante lo sfondamento del fronte?

Un'esperienza terribile; di una compagnia di 200 si salvarono in quattro. Alla richiesta di raccontare un episodio, un fatto di guerra, un aneddoto, risponde con qualche incertezza:

"A son stèe sempar in préma linea", e poi: "... an m'arcord gnint ...", lasciandomi l’impressione che si tratti più di una rinuncia che di un difetto della memoria (che importa ripescare cose così lontane e parlarne con questa voce incerta? Tutto questo conta così poco che ci si dimentica perfino delle 60.000 lire l’anno della pensione di guerra...).

Più loquace è Aldo Fortini, anche lui classe 1898, abitante a Bevilacqua e proveniente da una famiglia di braccianti di Renazzo.

– Lei e uno dei pochi cavalieri di Vittorio Veneto che ancora restano a Crevalcore...

"Tra la Palèda e la Bivlacqua ag son sol mi... Mah!"

– Mi diceva che è nato il sei giugno del '98... ; quindi è stato richiamato nel '16 e ha fatto in tempo a vederne un bel po' della guerra...

"Quarantaquàtar mìs a son stèe via, donca aven fat asèe; Parché ira andèe via anc dop ch'aviva quarant'an. I m'an mandèe a ciamèr e po' dopp a sté po' via sol tri mìs e po' a vens a ca' parché aviva quatar fiùa. Mo a n'iva fat asee préma".

– Dove ha combattuto nella prima guerra?

"A son stee al 7l° sul Carso e po' dopp a son stèe...".

– Era proprio nella zona critica durante la ritirata di Caporetto...

"As muriva, is mazevan, i cupevan tott... Dopp a véns al sicond fanteria, a gne' sul Monte Tomba e le' a sa stéva méi, in muriva poch".

– Come era composta la sua famiglia?

"Avevo due fratelli e tre sorelle, ma io non ero con loro perché sono andato a servizio che avevo 14 anni e ho fatto sempre questo lavoro finché sono andato militare. Dopo il servizio militare sono ritornato a servizio dalla stessa famiglia, i Malaguti".

– È mai stato ferito?

"No per fortuna; sono stato operato alla gola per un'infezione, ma ferito, mai. Sul Monte Tomba una volta si sono accorti dove eravamo e ci sparavano; allora ci siamo gettati in una buca in quattro o cinque e quando mi sono alzato ero sporco di sangue; dicevo: povero me, son frii, ma era il sangue di quello che era sopra di me. Io non mi ero fatto niente".

La nostra conversazione è finita, Fortini si alza con l’aiuto del bastone e va a riprendere il suo posto nella poltrona vicino alla stufa di terracotta.

 
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