Il teatro di Gaetano Lodi 1881-1981 Centenario del Teatro Comunale di Crevalcore LA VICENDA ARCHITETTONICA, LA DECORAZIONE |
||
Il 2 settembre 1881 una corrispondenza da Crevalcore in prima pagina sul quotidiano bolognese La Patria, annuncia, in tono piuttosto solenne, l'apertura del nuovo teatro nel successivo giorno 3, con l’esecuzione dell'opera Il Trovatore da parte della compagnia Montesini – Knubel – Bolis – Nolli – Lanzoni. Ma la serata di gala è fissata per domenica, 4 settembre, giorno di fiera. In paese si assisterà all'estrazione di una tombola, e una soirée danzante, organizzata dalla 'Società di Ricreamento', avrà luogo, dopo l’Opera, nell'Aula Municipale. I palazzetti che si affacciano sulla strada maestra sono stati rimessi a nuovo per l’occasione, anzi, i proprietari hanno fatto a gara nell'abbellirli; s'attende un gran concorso di gente: già si prevede un teatro affollatissimo[1] (1).E si capisce bene la ragione di tutta questa eccitazione: Crevalcore ha finalmente il Suo tempio della lirica, l’emblema del successo di una pubblica amministrazione che ha saputo far leva sui sentimenti municipalistici per coronare una politica edilizia tenacemente perseguita dal sindaco Antonio Michelini negli anni '60 – pensiamo suggerita in maniera precipua da ragioni di decoro – i cui principali raggiungimenti erano stati la costruzione del nuovo palazzo comunale e del cimitero. "Questo paese ha delle risorse da città, bello, elegante, pulito..." scrive il giornalista Ugo Bassini, sempre su La Patria, il 9 settembre, all'interno di un lungo resoconto della giornata inaugurale. Si appianano a questo punto nella generale euforia, anche i contrasti che avevano accompagnato la nascita stessa dell'edificio e che erano divampati con qualche punta d'asprezza, a causa soprattutto dell'ingente sforzo finanziario sostenuto dalle casse comunali. Il progetto di costruire il teatro doveva essere ben radicato per vincere i contrasti ed imporsi nonostante tutte le remore di ordine economico; e soprattutto ben radicata doveva essere l’abitudine a vivere l'evento sociale che il teatro rappresentava. Se ne parlava almeno dai primi anni '50. quando ormai le numerose riparazioni e rabberciature non riuscivano più a rimettere in sesto il vecchio teatro bibienesco, di legno, che veniva descritto come logoro e cadente.Questo sorgeva nell'angolo nord-est del vecchio palazzo comunale, al primo piano, ed era stato costruito a spese degli Accademici Indifferenti e Risoluti nel lontano 1726. Il teatro era di proprietà del Comune, ma i successori degli accademici avevano ereditato e conservavano il diritto d'uso della maggior parte dei palchi, diritto che poteva anche essere oggetto di regolare compravendita. Nel 1856 i palchettisti giunsero a proporne l'integrale rifacimento e presentarono un progetto, affossato poi per vari motivi, da ricondurre sostanzialmente alla consuetudine di estrema prudenza nella spesa caratteristica dell'amministrazione pontificia. Riparato un'ultima volta nel 1859, del piccolo, antico teatro si decretava l'abbattimento nella seduta consiliare del 18 dicembre 1866, mentre veniva approvato il progetto di ricostruzione del Municipio.[1] Era però necessario, per rendere esecutiva la decisione, espropriare i palchettisti, la qual cosa avrebbe sicuramente destato qualche malumore con possibili conseguenze di ordine politico-elettorale (e opportuno ricordare che l’elettorato appartiene ancora a una ristretta fascia sociale, selezionata per censo e grado di istruzione); ed ecco la Giunta addivenire a un accordo coi palchettisti medesimi nel quale si prometteva di costruire un teatro nuovo dove essi avrebbero potuto mantenere i loro privilegi previo esborso di una somma aggiuntiva che sarebbe andata a coprire parte delle spese di costruzione, o altrimenti avrebbero potuto scegliere di essere risarciti, se rinunciavano, in base a stima periziale. Tutti optarono per conservare il privilegio, destinato a tramutarsi in uno 'ius perpetuo' di prelazione del palco. Non è quindi escluso che da questi interessi sia rimasta condizionata la scelta stessa del progetto per la ristrutturazione del Municipio. |
||
In proposito furono accantonate due diverse soluzioni del noto architetto napoletano Antonio Cipolla, una delle quali prevedeva la ricostruzione della residenza municipale senza teatro, mentre l’altra deputava a luogo teatrale uno spazio interno a ridosso delle abitazioni sul lato meridionale dell'isolato, senza accesso monumentale. Venne invece preferito un progetto dell'ingegner Luigi Ceschi, che riusciva a conciliare un migliore sfruttamento delle preesistenze (costi minori) con la destinazione all’erigendo teatro di un'area a sud-est: ciò che si traduceva nella possibilità di avere un prospetto, fornito di tutte le caratteristiche architettoniche di prammatica, sull'attuale via Roma. Nel maggio 1867 si dette corso ai lavori di demolizione mentre gli alunni delle scuole elementari intonavano un canto dai manzoniani accenti, composto da Don Luigi Pederzani: "Polverosa accademica arena, palchi d'asse costrutti e di travi, scene smunte del Grande Bibbiena solo il tempo la morte vi dà."[1] A un anno e qualche mese di distanza la facciata del nuovo teatro in via Roma era già stata costruita, quando la Giunta tornò sulle proprie decisioni a causa delle osservazioni che nel frattempo erano state mosse al progetto Ceschi. Mancava ad esso la consueta suddivisione dello spazio verticale in palchetti, sostituiti da tre gallerie aperte sovrapposte, alla francese, nelle quali gli spazi riservati al pubblico benestante venivano individuati unicamente mediante bassi tramezzi. Il Ceschi tentava così di andare incontro alle esigenze dei palchettisti senza compromettere buona visibilità e ricezione acustica in ogni punto della sala, che solo le gallerie aperte riuscivano ad assicurare. Si sarebbe perciò fatalmente scontrato con l'inveterata abitudine all'intimità privata del palchetto cara alla tradizione italiana e così ben espressa in un opuscolo di Francesco Riccati risalente al 1790: "Ogni palco e come la propria casa di ciascun proprietario, in cui può star solo, se vuole, può procurarsi piccola o numerosa società d’amici, può mangiare, può giocare, che sò io: insomma le nostre Donne di ogni età rinunziano di buon grado a tutte quelle utilità, che possono provenire dalle Logge aperte, per godere una continua conversazione sempre varia ne' loro Palchi"[1] (4); |
Progetto di Antonio Cipolla per il Municipio di Crevalcore con annesso teatro (1865) | |
con presupposti del genere il progetto Ceschi fu senz'altro “cestinato” come dice senza mezzi termini L. Meletti, mentre il vestibolo del teatro, già costruito, veniva destinato a sede della Pretura. Sul finire del '68 si nominò quindi una commissione incaricata di studiare la faccenda. Essa pervenne alla sudata risoluzione di affidare all'architetto Fortunato Lodi il compito di fornire un nuovo progetto, puntualmente presentato tra il '70 e il '71. Professore di architettura all'Accademia di Belle Arti di Bologna, il Lodi è stato considerato regionalmente uno dei pionieri dell'eclettismo per la varietà di stili che riusciva a fondere e ad amalgamare; portato al sovrabbondante nell'ornamentazione (ad esempio nel teatro di Cento, costruito nel 1858-60, per cui si parlerà di 'stile plateresco')[1] egli stava indirizzandosi, dopo aver partecipato nel 1863 al concorso fiorentino per la facciata di S. Maria del Fiore, verso più composti ritmi neorinascimentali. In campo teatrale rivelava appieno la sua propensione accademica e tradizionalista nel solco dei Bibiena. Era proprio quello che ci voleva. Il suo progetto in 22 tavole, minuzioso ed esatto, pregevolissimo nei particolari, aveva tuttavia il difetto di essere accompagnato da un preventivo di ben 95.674 lire cui si dovevano aggiungere le spese d'acquisto della casa Bussolari, adiacente il palazzo comunale. Il teatro di Fortunato Lodi sarebbe quindi risultato più grande di quello disegnato da Luigi Ceschi, del quale avrebbe sfruttato la parte già costruita continuandone il fronte in direzione della chiesa di S. Croce per lasciare ampio spazio ai locali di rappresentanza. – Ma perché non costruirlo addirittura altrove, sul corso principale – proponeva il Lodi in un secondo momento. Cosa fece la Giunta ....?. Nominò una commissione, incaricata di studiare la cosa sotto ogni profilo, esaminando i vari punti di vista, non escluso quello dei palchettisti, di occuparsi delle coperture finanziarie, di indicare il luogo, di predisporre l’attuazione ecc. ecc..Finalmente, sul principio del 1873, il luogo era stabilito: il teatro sarebbe sorto sulla strada maestra sull'area della casa di Maria Grassigli, in Zani, della quale si stava perfezionando l’acquisto. Quanto al progetto, quello del Lodi era parso eccessivo nei costi e si decideva di accantonarlo, mentre un altro ne presentava l’ing. Antonio Giordani, centese, nell'agosto del '74.
|
Progetto di ristrutturazione del Municipio dell'ing. Luigi Ceschi (1866). In basso a sinistra é visibile il piccolo teatro bibienesco demolito nel maggio 1867. In alto a sinistra il teatro a gallerie aperte la cui costruzione, intrapresa nel 1868, fu poi abbandonata. |
|
Il costo previsto questa volta scendeva a L. 65.015; i palchettisti erano soddisfatti, la Giunta lo approvava, ed affidava all'ingegner Giordani anche la direzione dei lavori che sarebbero principiati la primavera seguente. Le principali varianti del progetto Giordani rispetto a quello del Lodi erano rappresentate da una riduzione degli ambienti accessori, dall'eliminazione della galleria sopra i tre ordini di palchetti, da una maggiore semplicità della pianta, dal passaggio della cavea da una forma a campana (che naturalmente il Lodi mutuava sempre dai Bibiena),a una forma a ferro di cavallo – più in linea con le tendenze contemporanee – e infine da un aumento della lunghezza totale dell'edificio da trenta a trentaquattro metri a tutto vantaggio della sala. Ci si accorse ben presto che il palcoscenico risultava un po' corto, e allora nuove more, contatti con i proprietari del terreno per ottenerne un'ulteriore porzione... conclusi con un nulla di fatto. Le fondamenta si gettarono nell'estate del '76; nel corso del '77 l’edificio prendeva forma. A questo punto entrò in campo Gaetano Lodi. Di ritorno dal Cairo (dove, fra il 1873 e il '76, ha decorato la reggia del Kedivé) viene chiamato a far parte della commissione direttrice della costruzione e tosto si impone per autorevolezza di pareri fino a condizionare l’opera del Giordani: scoppiano dissensi. Lodi si dimette. Egli gode però dell'appoggio di personaggi influenti come Pompeo Michelini che gli rappacificano la Giunta (non forse il Giordani) e gli ottengono l’incarico della decorazione. Nel marzo del '78 Lodi, volendo lasciare una sua opera nel paese natale (ut postera crescat laude) accetta il modesto compenso forfettario di 7.000 lire che gli viene offerto, ed ora è lui il padrone della situazione. Modifica a suo piacimento numerosi particolari architettonici, fa ad esempio abbattere le due colonne nell'atrio, ben visibili nel progetto Giordani, trasforma e ingrandisce le finestre, fa di tutto insomma per togliere al teatro quell'aspetto di 'casa di civile abitazione' che pare gli avesse conferito l'ingegnere centese. Lo strano è che la facciata, come si presenta ora, assomiglia molto di più a quella prevista nel '70 dal progetto Fortunato Lodi che a quella del progetto Giordani. A questo riguardo si potrebbero avanzare alcune congetture, ad esempio che Gaetano Lodi si sentisse maggiormente in sintonia con il suo omonimo e collega dell'Accademia di Belle Arti al punto da raccoglierne numerosi suggerimenti. Il progetto dell'architetto bolognese, benché accantonato, parrebbe cosi avere esercitato un ruolo importante in questa fase dei lavori, e non è escluso che abbia potuto fornire una traccia anche per la decorazione e l'arredo. Solo una traccia, perché nella decorazione, naturalmente, Gaetano Lodi sa andare oltre. |
Progetto di teatro firmato dall'architetto Fortunato Lodi: pianta (1870-71) |
|
Progetto per il teatro dell'ing. Antonio Giordani (1874 76). Sezione longitudinale e fiancata. |
Progetto di Antonio Giordani (1874-76) pianta. |
|
È un ornatista d'eccellenza: formatosi con Andrea Pesci e Giuseppe Badiali, tenta di trasfondere nuovo soffio di vita in quella tradizione tutta bolognese di pittura decorativa che si va stancamente esaurendo nelle monotone incorniciature, nelle inferme volute del Manfredini o del Mastellari, e in quelle grevi del Samoggia, reinventando a suo modo una raffaellesca fatta di satiri dai facciotti rubizzi, di uccelletti sorpresi con la zampina alzata dentro chioschi di verdura, di motivi egizi e moreschi. Lodi, dunque, si accinse alla decorazione del teatro nel corso del 1878 organizzando con sapiente regia ornamentazione a pastiglia e intervento pittorico in un concetto decorativo d'insieme. Una profusione di fiori a mazzi e a serti invase i balconcini e i palchi, trabocco nelle sale del foyer, e nonostante una minor tenuta nel segno o una certa opacità del colore, specialmente nei palchi (spia dell'intervento di qualche giovane aiuto) riusciva ad ottenere un 'effet d’ensemble' gradevolissimo. La maggior parte delle sue energie era tuttavia assorbita, ancora nel '79, dall'impresa del plafond. |
||
Intanto si stabiliva il soggetto che avrebbe dovuto rappresentarsi sul sipario per farne un monumento alla più nobile memoria storica del paese. Fornì il tema il dott. Federico Rossi: doveva fingersi come un arazzo secentesco; al centro, quasi un vero e proprio quadro, "Il celebre anatomico scienziato Marcello Malpighi accolto dal Granduca Ferdinando II di Toscana per la cattedra di medicina conferitagli nella Università di Pisa"; intorno, gli altri crevalcoresi 'illustri' in medaglioni monocromi dentro la gran bordura.[1] L'incarico fu affidato a Raffaele Faccioli, giovane pittore verista di qualche notorietà. Riuscì 'pesante' secondo il giudizio di molti, e poco in tono con la vaporosità decorativa del Lodi. Ragion per cui quest'ultimo "gettovvi sopra copia di fiori". E così pure piacquero poco i putti sopra il boccascena, mentre miglior risultato ottenne il Faccioli nelle due leziose figurine femminili della bocca d'opera e nei busti di Verdi e di Rossini. Ora torniamo al soffitto, “gorgheggiante come un canto lirico, aderente corrispettivo dei trilli che i virtuosi dell'Opera coltivano con l'esercizio assiduo, e paiono esclusivo frutto di dote naturale. Il Lodi, in questo 'suo' teatro, “vi si pianta dentro con la sua fantasia orientale, con la sua inesauribile vena di idee ornamentali, con la sua tavolozza e i suoi pennelli. con il suo amore per il paese natale, col suo disinteresse, colla ostinazione di fare un'opera d'arte, lavora, lavora e lavora, e l’opera d'arte è fatta”. |
Raffaele Faccioli: il sipario che raffigura Marcello Malpighi alla corte del Granduca di Toscana |
|
Gaetano Lodi |
Entrando in quella elegantissima sala, pare di entrare in un sogno...” scriveva il giornalista Bassini con qualche punta di retorica, e rende assai bene l'idea. E' un cielo che trapassa dal giallo luminoso sulla bocca d'opera all'azzurro oltremare dalla parte opposta; sulla campitura del cielo rabeschi di stucco bianco i quali diventano di un grigio intenso, per contrappunto, sulla bocca d'opera, come illuminati da dietro. E poi dorature e leggerissime ghirlande. L'effetto è quello di "un merletto di fogliami grigi sopra un fondo azzurro che sfuma, tutto sparso di fiori che vi diffondono l'immensa lietezza delle loro tinte vivaci..." è sempre il Bassini che parla; quindi prosegue entusiasta: "Il lavoro del prof. Lodi non si descrive: a parlare di fogliami, di fondo azzurro e d'altro, non si dà l’idea del gusto, della intonazione, dei pregi tutti di quell'opera. Bisogna vederla, rimanerne meravigliati, e riportarne una impressione viva ed incancellabile". Sotto questo cielo dipinto, illuminato dagli apparecchi a petrolio disegnati dal Lodi stesso (e costruiti dalla ditta ferrarese di Ameto Santini), la sera del 3 settembre 1881, sullo sfondo degli scenari di Ugo Gheduzzi, il soprano Bianca Montesini esprime in frasi di estenuata passione melodica "Come ne strazia Leonora il core quando lamenta il caro ben che more".[1] Quasi caro ai crevalcoresi come il morente Manrico al cuore di Leonora, il teatro che comincia ora a vivere è costato alla fine centotrentamila lire, il doppio della spesa preventivata. |
|
[1]La PATRIA, giornale politico quotidiano, anno VIII n. 242, Bologna, venerdì 2 settembre 1881. Brevi corrispondenze da Crevalcore appaiono sullo stesso giornale nei giorni 7, 16, 19 settembre, mentre il 9 settembre viene pubblicato il lungo articolo firmato da Ugo Bassini. [1] Su questo teatro cfr. anche il mio articolo L’antica Accademia Crevalcorese Degli Indifferenti Risoluti, in: Strenna Storica Bolognese Anno XXIX, Bologna 1979, p. 136-138.La piantina ivi pubblicata a p. 137 potrebbe anche riferirsi a una proposta di restauro del teatro bibienesco; su questo argomento non sono, credo, possibili affermazioni sicure, in quanto non è certo che il teatro, in origine, si presentasse come risulta dal rilievo dell'ing. Giordani relativo al palazzo Comunale e nella pianta dello stesso periodo, anch'essa esposta in questa mostra, che ci conserva anche i nomi dei palchettisti. Utilissime informazioni su questo teatro, e così pure sulla vicenda progettuale del teatro nuovo, sono contenute nel vol. ms. Crevalcore, Monumenti del XIX sec., Parte IV, vol. 11 (M. 27) di Lorenzo Meletti, Biblioteca Comunale di Crevalcore. [1] L. Meletti, ms. cit., c. 139. [1] F. Riccati, Della costruzione de’ teatri secondo il costume d’Italia, vale a dire divisi in piccole logge, Venezia 1790. [1] Questi crevalcoresi illustri dipinti sul bordo del sipario sono rispettivamente: nel bordo superiore Bernardo di Giovanni e Gaetano Allegralcuori, filosofi e giuristi vissuti tra il XIII e il XIV sec.; nella zona mediana Giangirolamo Sbaraglia e Francesco Ippolito Albertini, l'uno avversario, l'altro discepoli del Malpighi; nella zona inferiore Lodovico Mattioli, l'incisore amico di Giuseppe Maria Crespi, e Pietro Maria da Crevalcore, un pittore discepolo del Calvaert del quale, a quanto sembra, non resta alcuna opera e che viene nominato dal Malvasia (Felsina Pittrice, ed. 184l, I p. 208) unicamente per aver spalleggiato il proprio maestro quando questi tentò di concludere in punta di spada una contesta pittorica con Federico Zuccari. Un 'altra gloria crevalcorese, Jacopo Atonio Perti, è raffigurato in un medaglione del soffitto dell'atrio, probabilmente anch’esso dovuto al Faccioli. [1] A. Zannoni, Ricordo biografico di Fortunato Lodi, in: Programma della reale scuola d’applicazione per gli ingegneri in Bologna, anno scolastico 1882-83, Bologna 1883, p. 150.
[1] Ecco il testo completo del modesto omaggio in rima, opera di qualche improvvisato poeta d 'occasione: A BIANCA MONTESINI Non così disperato il canto sciolse L’innamorata lesbica donzella Quando all’ultimo fato la travolse Amore e la fortuna empia e rubella; Come ne strazia Leonora il core Quando lamenta il caro ben che more.
Volantini colorati contenenti composizioni di questo tipo, con dedica al cantante, si usava probabilmente gettarli dai palchi dopo le interpretazioni più applaudite. Il cit. ms. di L. Meletti ce ne conserva una discreta raccolta. |
||
CENNI BIOGRAFICI LUIGI CESCHI Ingegnere. Si occupò in varie riprese di questioni riguardanti l’estimo civile e nel 1870 partecipò alla progettazione della linea ferroviaria Bologna – Verona pubblicando anche alcuni opuscoli a stampa. Ciononostante non è stato possibile trovare i dati biografici fondamentali. È probabile che con l'ing. Ceschi abbia lavorato Giuseppe Ceri, che lasciò scritto nelle sue memorie di aver preso parte alla progettazione del Municipio di Crevalcore. RAFFAELE FACCIOLI (Bologna 1846 – 1916) Uscito dal Collegio Venturoli, fu pittore ancorato a una resa scrupolosa del vero; trattò con vena sentimentale il paesaggio, la pittura di genere, il ritratto. Partecipò alla esposizione di Vienna del 1876 e a quella di Torino del 1884. Ricoprì inoltre la carica di preside nell'Istituto di Belle Arti di Bologna. BIBL. SOMMARIA: Th. B.; P. Patrizi: R. F. in Natura ed Arte XXXI, (1906-7); Diz. Enc. Bolaffi. UGO GHEDUZZI (Crespellano 1853-Torino 1925) Pittore e scenografo. Dopo aver studiato a Bologna si trasferì a Torino; qui operò molti anni ottenendo un certo successo nella pittura di genere e di paesaggio e lavorando alle scene del Teatro Regio con facile estro tardo-romantico. BIBL. SOMMARIA: Vollmer, Allgem. Lex.; Diz. Encicl. Bolaffi; A. Gatti, Notizie storiche intorno alla R. Acc. di Belle Arti in Bologna, Bologna 1896. ANTONIO GIORDANI (Cento 1813 – 1897) Ingegnere. Laureatosi in matematica all’Università di Bologna nel 1835, pubblico nel 1852 un libro dal titolo Ricordi per l'Ingegnere civile. L'anno seguente fu nominato ingegnere comunale di Cento; nella sua città ricopri per qualche tempo anche la carica di sindaco. Si occupò di edilizia e di idraulica. Collaborò con Fortunato Lodi alla costruzione del teatro comunale di Cento. Oltre al teatro di Crevalcore progettò fra l’altro i teatri di Pieve di Cento e di Bondeno. BIBL. SOMMARIA: A. Orsini, Diario centese 1796-1887, Bologna, 1904; Id., Cenni biografici degli illustri centesi. FORTUNATO LODI (Bologna 1806 – 1883) Architetto. Studiò alla Accademia di Belle Arti di Bologna; in seguito si recò a Lisbona e in questa città costruì il Theatro Nacional nel 1842-46. Al ritorno dal Portogallo operò a Bologna e a Bergamo, dove progettò il palazzo della Pretura urbana e nel 1859 insegnò all'Accademia Carrara. Nel 1863, a Firenze, fece parte della commissione giudicante per la facciata di S. Maria del Fiore ed elaborò per la stessa alcuni progetti. Fra il 1859 e il '77 insegnò architettura all'Accademia di Belle Arti di Bologna e in seguito architettura tecnica alla Scuola di Applicazione per gli Ingegneri. Su suoi progetti furono inoltre edificati il teatro di Cento, la facciata della chiesa arcipretale di S. Pietro in Casale e alcuni palazzi bolognesi. BIBL. SOMMARIA: Th. B.; A. Zannoni, Ricordo biografico dell'architetto F. L., Bologna 1883; A. Gatti, Notizie storiche intorno alla R. Acc. di B. A. in Bologna, 1896; E. Gottarelli, Urbanistica e architettura a Bologna, Bologna 1978; A. Belluzzi, Architettura 1 789 1868, in: I concorsi curlandesi, cat. di mostra, Bologna 1980. GAETANO LODI (Crevalcore 1830 – Bologna 1886). Nato a Crevalcore il 27 novembre 1830, al n. 31 della via che attualmente porta il suo nome, studiò all'Acc. di Belle Arti di Bologna lavorando contemporaneamente come aiuto dell'ornatista Andrea Pesci, col quale dipinse decorazioni nei palazzi bolognesi Dal Monte, Rossi e Bonora. Nel 1859 decorò il teatro comunale di S. Giovanni in Persiceto. Messosi per conto proprio, lavorò nel Caffè del Corso di via S. Stefano alla decorazione della 'sala delle Signore', quindi fu scelto dall'architetto Antonio Cipolla per dipingere il portico e alcune sale interne della Banca d'Italia di via Farini, che lo tennero impegnato dal 1862 al '65 ; sempre a questo periodo risale il suo intervento nella sala del teatro Brunetti, in seguito demolito e ricostruito col nome di teatro Duse. Per i Reali d'Italia lavorò allo scalone del Palazzo Reale di Torino e nella villa reale di Poggio a Caiano; queste opere gli valsero la nomina (1867) a "pittore ornatista ordinario della Real Casa". Fu poi a Milano, chiamatovi dall'architetto Mengoni; quindi, ancora per la famiglia reale, decorò il Casino del Gombo a S. Rossore (c. 1870). Nominato accademico ordinario e professore corrispondente dell'Accademia fiorentina, nel 1871 divenne socio onorario di quella bolognese. Il 1873 lo vide attivo in Egitto alla decorazione dell'harem di Ghisech; tornato in Italia nel '74 era di nuovo in Egitto alla fine di quello stesso anno per dipingere nel palazzo del Kedivé al Cairo, e intanto disegnava le maioliche per il servizio da tavola del sovrano egiziano che venivano confezionate a Firenze da Ginori. Nel febbraio del 1877, al definitivo reimpatrio dall'Egitto (aveva nel frattempo sposata la fiorentina Luisa Messeri) lasciava l’abitazione crevalcorese il palazzo attualmente sede della farmacia Benatti – e fissava la propria residenza a Bologna, dove otteneva la cattedra di ornato all'Accademia di Belle Arti (1878). La decorazione del teatro di Crevalcore (1878-79) è la sua ultima opera di rilievo: fino alla morte, che lo avrebbe colto all'età di cinquantasei anni, il 3 dicembre 1886, nell'abitazione bolognese di via Belle Arti n. 18, Lodi dividerà la sua attività fra l’insegnamento all'Accademia e la direzione della Società Cooperativa di Ceramica di Imola. La notorietà di cui godeva si venne dopo la sua morte rapidamente offuscando sia perché l’arco di tempo relativamente breve (circa un ventennio) in cui è distribuita la sua attività di decoratore – per di più dispersa fra diverse città italiane e l’Egitto non gli consentì di lasciare un gruppo compatto di opere sulle quali si sarebbero potute fondare adeguate valutazioni critiche, sia perché la pittura decorativa andava ormai perdendo la ragguardevole posizione fra le specialità pittoriche in cui era stata a lungo tenuta. Nel plafond del teatro di Crevalcore riesce tuttavia di intuire quale fosse la direzione in cui tale tipo di pittura si stava muovendo: vi si leggono senza difficoltà i presagi del Liberty emiliano, movimento che ebbe del resto in un allievo del Lodi, Augusto Sezanne, uno dei suoi protagonisti. BIBLIOGR.: Cesare Masini, Del movimento artistico in Bologna, Bologna 1867 p. 27 ; Ugo Bassini, Il teatro e l'Opera in: La Patria, 9 sett. 1881; C. Ricci, I teatri di Bologna, Bologna 1888 p. 302; A. Gatti, Notizie Storiche intorno alla R. Accademia di Belle Arti, Bologna 1896; U. Pesci, Anche il Duse restaurato in: Musica e musicisti, Milano 1905 ; G. Zucchini, Bologna, coll. L'Italia artistica N. 76, Bergamo s.d. p. 167, 170; C. Ricci, G. Lodi, in: Il comune di Bologna N. 3, marzo 1932; C. Ricci – G. Zucchini, Guida di Bologna, Bologna 1950; L. Bortolotti, I comuni della provincia di Bologna, Bologna 1964, p. 173 ; F. Varignana, Le collezioni d'arte della Cassa di Risparmio in Bologna, I disegni III, Bologna 1977, p. 397. |
||
Pubblicato in occasione della mostra per il centenario del teatro Comunale di Crevalcore nel 1981 |